ISTAT, ovvero... dal paese delle meraviglie

Interessante intervento di Ricolfi, editorialista de La Stampa, che prende spunto dal Rapporto pubblicato ieri dall’ISTAT, istituto che da anni sottostima il reale effetto dell’inflazione sul potere di acquisto dei salari, soprattutto dei lavoratori dipendenti.

Risultato ottenuto: le retribuzioni sono al palo e le difficoltà aumentano. Bye, Rex

UN LUNGO CAMMINO
• da La Stampa del 29 maggio 2008, pag. 1 di Luca Ricolfi

Non è certo nuovo il quadro che l’Istat traccia nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2007. Non è nuova, in particolare, l’analisi che denuncia le difficoltà economiche delle famiglie, il cui tenore di vita è sicuramente peggiorato in relazione a quello medio europeo, ma probabilmente anche in assoluto: un trend, quello del deterioramento del potere di acquisto, che le statistiche dell’inflazione rendono invisibile ma è invece decisivo per capire la gravità della sofferenza economica delle famiglie italiane (come mai le statistiche sottostimino l’inflazione lo aveva spiegato diversi anni fa il professor Campiglio, purtroppo inascoltato).

Quel che rende interessante il Rapporto, però, è soprattutto il momento in cui esce, ovvero all’inizio di una nuova legislatura, con un governo appena insediato e che probabilmente resterà in sella per cinque anni. Discutere dello stato dell’Italia in questo momento, in altre parole, significa chiedersi da che lato il nuovo esecutivo vorrà e potrà affrontare i problemi che da anni ci affliggono. Ho detto vorrà e «potrà» perché l’esperienza insegna che l’azione effettiva di un governo dipende sia dalla sua determinazione sia dalle resistenze e aspettative che incontra.

E ho l’impressione che, di resistenze e aspettative, questo governo ne incontrerà parecchie.

Ci sono, tanto per cominciare, le organizzazioni sindacali e i lavoratori da esse rappresentati. Qui si annuncia burrasca, perché due anni di fantasie su extra-gettito, tesoretto, risorse da distribuire hanno convinto molti che ci siano i margini per un aumento generalizzato di salari, stipendi e pensioni. Purtroppo non è così, i conti pubblici del 2008 non sono molto migliori di quelli del 2006 e anzi potrebbero peggiorare ulteriormente quando il gettito fiscale comincerà a risentire del rallentamento dell’economia, e inoltre il governo dovrà reperire i 6-7 miliardi necessari per coprire le spese aggiuntive «dimenticate» nell’ultima Finanziaria. A quel punto qualsiasi cosa desideri fare il governo (contratto degli statali, investimenti pubblici, detassazioni) le risorse dovrà cercarle eliminando inefficienze e sprechi della Pubblica amministrazione, con conseguenti levate di scudi dei dipendenti toccati da razionalizzazioni e tagli (una prima avvisaglia l’abbiamo avuta ieri stesso, con la decisione della Cgil e di un sindacato di base di disertare l’incontro con il ministro Brunetta).

Ma ci sono anche le imprese e le loro organizzazioni. Qui il problema non sono le resistenze delle categorie, ma semmai le loro aspettative sbagliate. Una lunga storia fatta di rapporti privilegiati con il potere politico le ha rese più inclini a puntare su benefici particolaristici che su regole e incentivi di tipo universalistico. Salvataggi, cassa integrazione, mobilità lunga, rottamazioni, agevolazioni settoriali, commesse pubbliche sono entrate nella forma mentis di molti imprenditori, mentre la battaglia semplice e limpida per un fisco meno oppressivo è stata combattuta più nelle ovattate sale degli uffici studi e delle conferenze stampa che nell’arena, aspra e difficile, della contrattazione con il governo e le parti sociali. Un’attitudine, quella di contrattare sui benefici settoriali più che sulle regole, che ha sempre trovato una sponda nella vocazione assistenziale dei governi di ogni colore politico e ha finito per danneggiare gravemente soprattutto il sistema delle piccole imprese.

Ci sono, infine, i giovani e le loro famiglie, cui nessun politico pare intenzionato a rivelare che se la produttività del nostro Paese cresce tanto più lentamente di quella degli altri Paesi europei è anche perché lo stato dell’istruzione effettiva in Italia è drammatico: siamo agli ultimi posti nella percentuale di diplomati e laureati, ma siamo agli ultimi posti anche nei risultati ai test «Pisa», dove i nostri studenti vengono sistematicamente scavalcati dai loro coetanei europei. La distruzione della scuola e dell’università, durata trent’ anni ma portata a una perfezione mirabile nell’ultimo decennio, ci ha consegnato un handicap da cui è impensabile liberarci in meno di una generazione.

Vedremo come il governo saprà muoversi di fronte a questo intrico di ritardi, di storture e - perché no - anche di abitudini mentali dei cittadini. Ma credo che la condizione senza la quale non faremo un passo sia di renderci conto che di passi ne dovremo fare davvero molti, e che nessuno di essi potrà essere un salto, né potrà dare risultati immediati. Ha fatto bene il governo a intervenire sui mutui e sugli straordinari, ma ha fatto ancora meglio a non presentare tali provvedimenti (sicuramente più utili di quello sull’Ici) come portatori di cambiamenti decisivi nella vita delle famiglie. Fa male, anzi malissimo, chiunque fomenta l’idea che vi siano risorse nascoste o facilmente scongelabili, e che il tenore di vita degli italiani possa cambiare significativamente in meno di un decennio. Dopo anni di dissipazione, superficialità e incoscienza, quel che abbiamo di fronte è un cammino decisamente lungo, in cui dovremo fare qualche sacrificio, abbandonare qualche abitudine, esporci a qualche rischio. Meglio rendersene conto subito che cullarci (e lasciarci cullare) nell’ennesima illusione.

Post più popolari