A me me piace la Mortadella Fina Fina Fina

Ve la ricordate l’esilarante imitazione di Corrado Guzzanti del Sor Gianfranco?

Due ricordi che rendono giustizia a uno dei pochi pensieri liberi che apparivano (ultimamente troppo poco) nella nostra plastificata e ingessata televisione. Ciao Gianfranco e grazie per le tue preziose scorribande! Rex


A’ ridatece ‘er sor Gianfranco

di Oliviero Beha
Era volgare, sboccato, tutto quello che andrebbe criticato in una rubrica dedicata alle “Malelingue”, a come parlano i personaggi pubblici, a come si comportano. Gianfranco Funari ci ha dedicato descrizioni analitiche del suo corpo e delle sue funzioni, ci ha riempito delle cosiddette “parolacce”, ha spinto a volte il peggio nella burrasca made in Italy o in Rome come il nocchiero di una nave in gran tempesta, quella della realtà tv, di quella politica, della realtà tout court. Ma accidenti, che persona libera, che voglia di pensare ed esprimersi, che fiuto per riconoscere animali della sua specie nella jungla Italia in cui tutti o quasi - e sempre di più - “fanno i cazzi loro”, per dirla funariamente. E che ironia di fronte alla vita e alla morte, che narcisismo votato agli altri, che curiosità per la gioventù, che gioventù nella vecchiaia. Con tutti i suoi limiti vicini al “fenomenale”, il fenomeno Funari andrebbe rubricato in punto di morte come un “grande italiano”, cui Napolitano dovrebbe i funerali di Stato. Che Funari non vorrebbe, magari facendo diffondere un documento in cui li rifiuta, dimostrando con questo di essere appunto un “grande italiano”. Ci mancherai, o mi mancherai, Gianfranco. Davvero.

Gianfranco Funari, uomo libero

di Marco Travaglio
La telefonata arrivava alle ore più impensate, annunciata dalla voce dolce di Morena, la moglie. «Ti passo Gianfranco». «A Trava’, stammatina m’hai proprio fatto godereee…». E giù a ridere su Bellachioma, Uòlter, James Bondi.

La prima volta che si fece vivo ero appena stato al Satyricon di Luttazzi, marzo 2001: «Ora quello rivince e ci fa un culo così. Io ci sono già passato, adesso tocca a te. Ma, quando vuoi, il mio programma per te è sempre aperto».

Per cinque anni casa Funari fu per me l’unica porta aperta in tv, o quasi. Nello studiolo disadorno di Odeon, alle porte di Milano, capii che quell’omino barbuto e tossicchiante, aggrappato al bastone e all’eterna sigaretta, era un grande della tv.

Gli piaceva sfatare i luoghi comuni e le verità ufficiali, cioè le bugie: per smontare quella dell’assoluzione di Andreotti (in realtà prescritto, dunque colpevole di mafia fino al 1980) aveva promosso una vera campagna, diventando amico del procuratore Caselli.

Nella sua vita aveva guadagnato molti soldi, ma non vi era attaccato. E questo era il suo segreto, oltre al fiuto felino che gli faceva annusare in anticipo quel che «sente la gente». Perciò piaceva così tanto agli italiani semplici. Perciò Berlusconi l’aveva voluto con sé e per lo stesso motivo l’aveva poi cacciato per ordine «del Principe», cioè di Craxi. Perciò la cultura ufficiale lo snobbava, anche se per la cultura ha fatto più lui di cento professoroni (o forse proprio per questo).
Ieri è morto un uomo libero.

E la televisione italiana, da oggi, è ancora meno libera.

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