Gran Torino - Grande Clint



Domenica al cinema per rendere omaggio al mito di Clint. Il mio è un giudizio di parte, lo adoro, ma se vi capita… andate a vedere il suo ultimo (capo)lavoro o almeno rimediate il DVD appena sarà in giro (anche se al cinema l’impatto è superiore).

Vi troverete a sorridere davanti alle battute di un burbero di altri tempi, a tifare per il suo amico Hmong che cerca di sottrarsi ad un destino già scritto, a comprendere la sua visione della vita e della morte, a interpretare il suo concetto di religiosità e, infine, cercherete di trattenere le lacrime nel finale che chiaramente non vi svelo (io non ci sono riuscito, ma naturalmente ho cercato di far finta di niente mentre scorrevano i titoli di coda). Bye, Rex

Gran Torino

[Gran Torino, USA, 2008, , durata 116'] Regia di Clint Eastwood
Con Clint Eastwood, Cory Hardrict, Geraldine Hughes, Dreama Walker, Brian Haley, Brian Howe, Doua Moua, Nana Gbewonyo, Sarah Neubauer, Christopher Carley

di Mauro Gervasini (www.filmtv.it)

Clint Eastwood e l’ideale di una civiltà che coincide con il Sogno americano più autentico e per questo utopistico. Un cineasta capace di elaborare il senso del tragico per tentare di fare (ri)nascere una Nazione

Non c’è nessun tram che si chiama desiderio per il signor Kowalski. Solitudine e rabbia, invece. La moglie adorata giace nella bara e i suoi occhi carichi di rancore squadrano i figli opportunisti e la nipote che mostra irrispettosa il piercing all’ombelico.

Ha il cuore nero, Kowalski. Reduce decorato della Guerra di Corea, inchioda il pretino irlandese ai suoi cliché su vita & morte, perché chi ha ammazzato e visto gli amici schiattare nel sangue non se ne fa nulla delle chiacchiere. Nel suo quartiere, poi, solo musi gialli. Il ragazzino orientale vicino di casa tenta di rubargli la Gran Torino, macchina eccezionale accudita religiosamente, e allora scatta la sua furia. Ma il destino è beffardo soprattutto con chi vuole fingere a tutti i costi di essere cattivo, perché poi l’irascibile vecchio proprio con quel giovane e la sua famiglia riesce a instaurare un legame profondo.

Stupefacente nuovo film di Clint Eastwood, reduce negli Stati Uniti da un successo inaspettato e snobbato dagli Academy Awards come il precedente Changeling, perché ormai tutti – giurati e maestranze – sono consapevoli che se il regista/attore gareggia non si può far finta di niente, premiando magari per correttezza politica i filmetti estemporanei spesso in gara. Ha ragione Roy Menarini quando sul numero 155 di “Segnocinema” lo paragona a Bob Dylan, Philip Roth e Cormac McCarthy, ultimi mitografi di una Nazione. Anzi, aggiungiamo noi, di una idea di Nazione. Perché quello di Clint è un ideale di civiltà che coincide con il Sogno Americano più autentico e per questo utopistico: la libertà, l’individualismo, l’opportunità, la democrazia come espressione di un patto sociale originario. Quello che permette agli uomini e alle donne di essere comunità. Come dite? John Ford? Ma certo! Ci voleva tanto? È proprio di questo che stiamo parlando: di un cinema che si fa racconto morale e civile attraverso gli strumenti sempiterni della classicità. Storia, personaggi, sentimenti, tutti spessi e inossidabili come l’acciaio temperato di una 44 magnum, morfologia di un’epica che ormai non appartiene più a nessuno, se non a lui: Clint.

In Gran Torino il suo Kowalski è un completamento del Frankie Dunn di Million Dollar Baby. Entrambi simboleggiano la figura del padre perduto, così tipica della letteratura americana recente, ma anche la necessità di vivere questa condizione per potere quindi dare un senso alla propria esistenza. Dai “figli” - la giovane pugile interpretata da Hilary Swank e il ragazzino Hmong (una minoranza etnica sino-vietnamita) impersonato da Bee Vang nel nuovo film - l’asse si sposta dunque all’uomo che si fa carico della paternità putativa, e solo allora capisce la necessità di aprirsi alla vita e di conseguenza alla morte. Anche Gran Torino parla di responsabilità dei singoli nei confronti dell’altro, odiato nell’ignoranza e amato nella conoscenza, oltretutto con una ironia feroce e implacabile. Kowalski disprezza tutti come Callaghan (esattamente come Callaghan): negri, ebrei, messicani, cinesi... Ne farebbe un bel mucchio in nome di un principio identitario che si basa sul nulla. Su una astratta idea di razza e nazione (bianca? protestante? cattolica?), sulla rabbia e l’odio. Quindi fa ancora più sorridere che l’americano Kowalski chiami il suo amico barbiere “dago” (termine dispregiativo rivolto agli italiani), il suo amico carpentiere “irlandese”, e sia a sua volta indicato come “pollock”, dispregiativo di polacco.

Incredibilmente stratificato, Gran Torino torna sul tormentato rapporto con Dio, già accennato in Million Dollar Baby; sulla contemplazione disperata di un tessuto politico e sociale devastato, come in Changeling; sulla necessità di lottare con i propri demoni per salvarsi l’anima, come in Gli spietati. Soprattutto, definisce una figura tragica straordinaria, Kowalski, titanico nella sconfitta e nella resurrezione. Clint Eastwood è il più grande di tutti per come sa elaborare il senso del tragico essenziale e necessario in ogni processo di mitopoiesi (*). È da racconti come questo che (ri)nasce una Nazione.


(*) Mitopoiesi - da Wikipedia

La mitopoiesi (dal greco μυθοποίησις "creazione del mito") è un genere narrativo nella letteratura moderna e nel cinema dove viene creata una mitologia fantastica dall'autore o dal regista.

La parola compare già nell'opera "Volkerpsychologie", [1], e verrà poi sviluppata dallo scrittore britannico J.R.R. Tolkien negli anni trenta; gli autori di questo genere, seguendo l'esempio di Tolkien, integrano temi mitologici tradizionali assieme ad archetipi nei propri lavori. Queste nuove mitologie, invece di emergere dopo secoli di tradizione orale come avviene nella realtà, sono create in un breve periodo di tempo da un singolo autore o da un piccolo gruppo di collaboratori.

Fra i maggiori autori mitopoietici si ricordano, fra gli altri, J. R. R. Tolkien, C. S. Lewis, H.P. Lovecraft, F. Herbert e G. MacDonald.

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