Smile... you're on TV

Quelli che... non hanno niente da nascondere e sono contenti di essere sorvegliati e protetti! Bye, Rex

Sorvegliare e sorridere
MARCO BELPOLITI per La Stampa
dal regno del «sorvegliare e punire», di foucaultiana memoria, siamo passati al regno del «sorvegliare e sorridere»: Smile!

Perché mai continuare a chiamarla sorveglianza? Perché ostinarci a considerare la presenza delle telecamere che ci scrutano per strada, in banca, nel condominio, in casa, qualcosa di molesto? Oramai dal regno del «sorvegliare e punire», di foucaultiana memoria, siamo passati al regno del «sorvegliare e sorridere»: Smile! Se infatti non c’è una telecamera che ci inquadra, bisogna sospettare qualcosa di strano.

A chi potrò mai sorridere, a chi potrò rivolgere il lato più telegenico di me stesso, se non c’è chi mi osserva? Come aveva capito Thomas Pynchon, in un fulminante romanzo, «L’incanto del lotto 49», pubblicato a metà degli anni Sessanta, noi siamo sempre davanti a «camera» (cinematografica, televisiva, video). C’è un legame strettissimo tra l’avvento della «cultura del narcisismo» e quella della diffusione dei sistemi di registrazione delle immagini - e anche del suono.

La battaglia per la privacy presuppone l’esistenza di una società del segreto, società discreta, al riparo da sguardi eccessivi, società gerarchica e chiusa. La società di massa, della trasparenza, della visione continua e allargata, è invece per sua natura una società in cui si è visti e si vede continuamente, come dimostra l’uso della televisione commerciale. Anche il computer con cui scriviamo contiene una telecamera, mediante cui ci palesiamo, grazie a Skype, ad amici vicini e lontani, con cui dialoghiamo vedendo l’altro, e al tempo stesso vedendoci in una porzione più piccola dello schermo.

Le telecamere della videosorveglianza di polizia, carabinieri, vigili urbani, società pubbliche e private, non sono altro che l’estensione più coercitiva della visione che pratichiamo di continuo in forma casalinga, e quasi innocua. Lo stesso televisore, che nel suo etimo indica una «visione da lontano», in realtà è un «cortovisore», con cui vedere il vicino e il vicinissimo. Certo, la trasparenza, lo sappiamo, in questa società di consumatori allargati è solo un’ipotesi, una sorta di utopia sperimentale, perché ci sono zone della società dove gli sguardi di tutti non penetrano. Tuttavia non bisogna trascurare che il passaggio dalla società di Edipo, fondata sul parricidio rituale, alla società di Narciso, fondata sulla visione speculare, è in apparenza incontrovertibile, un atto compiuto negli anni Settanta del XX secolo, quando la riproducibilità delle immagini è diventata un elemento quotidiano e consueto.

Dalla fotografia alla telecamera digitale, la tendenza è di registrare ogni momento della nostra vita così che, quando in banca o al supermercato, si passa davanti al video, che ingloba e archivia il nostro ritratto, il primo impulso è di guardarci nello schermo, per verificare la bontà o meno della nostra immagine. Un effetto di derealizzazione ci attraversa di colpo mentre ci contempliamo. Ma è solo un attimo: io sono là, e non solo qui (per quanto del mio ritratto in forma digitale se ne potranno avvantaggiare ipoteticamente investigatori e spioni professionali). Cosa avrò mai da nascondere? Tutto è chiaro e saputo. Come ha scritto Georg Simmel, un segreto noto a più di una persona non è per nulla un segreto. Registratemi, registratemi, alla fine qualcosa di me resterà. O almeno così si spera. 

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