Capi e Sottoposti

Stavate per chiedere un colloquio al vostro capo oppure volete imporre il vostro punto di vista su orari, impegno e affini?? Okkio a come vi muovete, potrebbe essere controproducente, una vera arma a doppio taglio! Take a look, Rex

Le cose da non dire mai al capo
(Elena Lisa per LaStampa.it)
Un vademecum per i dipendenti americani. L’obiettivo? Non fare irritare il boss
Frasi da brivido. Non da film dell’orrore, ma da licenziamento. Almeno in America, dove sta prendendo piede un sistema manageriale che impone al dipendente regole quasi militaresche e tenta di trasformare i lavoratori in tanti «ragionier Fantozzi».
Non è un caso, perciò, che su siti internet e riviste che hanno a cuore il destino dei «poveri» sottoposti, stiano spuntando regolamenti sulle cose da non dire - pena crocifissione in sala mensa - per non urtare la sensibilità o mandare fuori dai gangheri i capi. Regole che in Italia non piacciono agli psicologi che si occupano di relazioni sul posto di lavoro, agli esperti di mobbing, ma nemmeno a chi, i leader li forma e li addestra per mestiere. «La differenza tra italiani è americani - dicono in sintesi gli esperti - è una questione di cultura. I nostri dipendenti sono molto più diligenti. Escono a sproposito quando proprio ne hanno piene le tasche».
Nel nostro Paese non esistono dipendenti «ribelli»? «Non proprio - risponde Giampiero Parenti, amministratore unico della Jump, società di consulenza e formazione aziendale e manageriale - è che i nostri capi, quelli intelligenti, ragionano diversamente. Se la ricordano ancora la lezione di Galileo Galilei. La ribellione sana va valorizzata perché è un segno di anticonformismo e capacità critica». Perfetto, in Italia le cose vanno diversamente, ma visto che la prudenza non è mai troppa ecco le cose da non dire.

1. Ho davvero bisogno di parlare con lei
Si suppone che il capo sia molto impegnato e quindi la necessità di un colloquio bisogna esprimerla con meno suspense e mistero. Non è sbagliato chiedere un incontro, ma meglio farlo esplicitando subito la ragione. «Essere diretti - dice ancora Parenti - è un’arma vincente sempre. Anche quando i superiori l’accettano mal volentieri. È l’unico metodo veramente efficace per evitare malintesi che, questi sì, creano zone d’ombra e mettono a repentaglio i rapporti di lavoro».

2. Non serve che nessuno mi insegni
«Quando si arriva a una esclamazione di questo tipo - dice Enzo Cordaro - psicologo esperto sui diritti al lavoro - è perché si è già ai ferri corti. Prima di valutare ciò che è bene o male dire è importante capire qual è il tipo di relazione di partenza tra capo e subalterno». Ciò significa che ne caso di rapporti buoni, può essere che sia quello il momento in cui uno, in questo caso il dipendente, avverte un’improvvisa mancanza di fiducia dell’altro. «E il superiore, sentendosi provocato - spiega ancora Cordaro - ha due possibili reazioni: pretendere il silenzio e proseguire nell’impartire l’ordine oppure chiedere spiegazioni e appianare le divergenze».

3. Non capisco
Una frase ambivalente. «Il dipendente deve svolgere una mansione che corrisponda alle spiegazioni avute - dice il formatore manageriale - perciò è molto importante che abbia il campo libero da dubbi e difficoltà. Si tratta di un’affermazione non criticabile. Chi la pronuncia, però, deve avere la buona abitudine di spiegare perché non è stato in grado di capire». In pratica è bene dire e motivare sempre quando qualcosa non è chiaro. È male dire «non ho capito» senza spiegarne il motivo, scuotere la testa e andare via.

4. Posso fare solo una cosa alla volta
Parola d’ordine in tutti i rapporti, nei posti di lavoro in particolare, è «concretezza». Spiega Fabio Biancalani psicologo del lavoro che si occupa di dinamiche aziendali: «Il dipendente deve avere bene in mente che l’unica cosa che può cacciarlo nell’angolo è l’astrazione delle sue affermazioni». Per non essere criticati dai capi, in pratica, contano i fatti: se un lavoro non si può fare perché già se ne sta facendo un altro è inutile rispondere con un’opinione o un modo di dire. Serve concretezza, cioè la descrizione di ciò che si sta facendo e il calcolo del tempo necessario per finire prima di poter fare altro.

5. Non è un mio problema
È una di quelle affermazioni che sono «campanello d’allarme» di un rapporto che incomincia a scricchiolare. È una frase di netta rottura che indica totale disinteresse verso ciò che si sta facendo: «Si tratta di un’evidente provocazione - dice Giampiero Parenti, a capo della Jump - che nasconde un dissapore o una incomprensione precedente». Se fino a quel momento, il dipendente non si è mai mostrato distante dalle questioni di lavoro è una considerazione certamente d’effetto da dire, però, solo se si ha a che fare con un capo interessato alle spiegazioni e alla collaborazione.

6. Non è colpa mia
Ai leader, in genere, non importa sapere chi sia stato la causa di un problema, ma interessa trovare chi la questione la sappia risolvere. Allontanare da se stessi la responsabilità di qualcosa, in più, può insospettire i capi. Specialmente se non chiedono chi sia il responsabile, prendono la «discolpa» come una «accusa manifesta». È la tipica espressione poi, di chi ha una mentalità infantile: «In Italia - dice Cordaro - la parola “colpa” ha un significato piuttosto blando nonostante le nostre radici cattoliche»

7. Non sono uno schiavo
Il tipo di linguaggio adoperato dipende dal luogo di lavoro. Nelle redazioni, negli ospedali, nelle università e nelle grandi aziende i rapporti tendono ad essere di tipo “collaborativo” di conseguenza l’uso di espressioni dirette, in virtù del fatto che si presuppone la possibilità di motivare la reazione avuta, sono consentite. «Non solo - dice Parenti - ma certe provocazioni, quando restano nel rispetto e nell’educazione alcuni leader le reputano addirittura stimolanti. Diverso il caso in cui i rapporti sono di tipo “direttivo”, dove non conta la collaborazione, ma la risposta a un ordine».

8. Io ho anche una famiglia
È questo il caso in cui la differenza tra Italia e America è netta. L’istituzione della famiglia, nel nostro Paese, ha ancora un certo peso: «Negli Usa - dice Biancalani - il lavoratore è inserito completamente nel sistema. L’unico ruolo in cui il manager vede il dipendente è quello di “lavoratore”. Diverso il discorso in Italia dove le ragioni familiari ancora vengono riconosciute». Ma in questo caso, vale la regola dell’equilibrio: mai approfittarne. A lamentarsi potrebbe non essere il capo, ma il collega di scrivania.

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