Omaggio al Mito Abebe Bikila

NO, ieri non ho partecipato alla Maratona di Roma. L'ho fatto solo una volta (e per questo sarò sempre e comunque un Maratoneta) ben 13 anni fa, terminando stremato ma infinitamente soddisfatto e felice. Ieri ha vinto un corridore Etiope, Gena, che ha voluto omaggiare Abebe Bikila tagliando il traguardo scalzo, in memoria dell'impresa che vide quel mitico corridore correre scalzo di notte sui sampietrini di Roma Antica, illuminato solo dalle fiaccole. Eroi di altri tempi, immagini da non dimenticare, questo è Sport! Bye, Rex

L’Etiopia ha letteralmente dominato la 16a edizione della maratona di Roma (oltre 15 mila partecipanti al via, fra cui una delegazione della maratona di Tokyo, gemellata con la corsa della capitale italiana) andando a segno sia nella prova maschile che in quella femminile, dove ha piazzato ben tre atlete sul podio. Così i maratoneti dell’Etiopia hanno ricordato nel migliore dei modi il grande Bikila a cui era dedicata la corsa romana nel 50° anniversario dall’impresa ai giochi olimpici, ripetuta poi nel 1964 a Tokyo. Un o maggio completo quello che Siraj Gena, vincitore tra gli uomini in 2h08'39'' (8a prestazione mondiale stagionale), ha voluto dedicare al suo "ispiratore", togliendosi le scarpe a 500 metri dall’arrivo per tagliare in solitario, e scalzo come il grande Abebe, il traguardo nel suggestivo scenario dei Fori Imperiali. «Ho sentito di dovere fare qualcosa per omaggiare Bikila - ha ammesso Gena, riferendosi al fatto di essersi tolto le scarpe prima dell’arrivo -. Per me è stato sempre fonte di grande ispirazione e oggi volevo provare quella sensazione di arrivare scalzo come lui sul traguardo di Roma».

Orgoglio a piedi scalzi

(Domenico Quirico per LaStampa.it)

Mezzo secolo fa avvenne di sera, con l’afa appiccicata alle venerabili pietre, un’aria di arena e di festa popolare, la gente venuta dal Testaccio e da San Lorenzo per vedere «l’Olimpiade».
O meglio: la maratona, la specialità dello sport più povera, più francescana: perché cosa c’è di più popolare di quel cilicio di fatica e di dolore di 42 chilometri? C’erano le fiaccole lungo l’Appia antica, tenute dai soldati, a illuminare il passo dei corridori
che si arrampicavano tra i resti della Storia. La televisione di allora, in bianco e nero, ignorava il primo piano, i concorrenti sono rimasti, nei filmati, riverberi incerti, la distanza dell’obiettivo trasfigura la fatica. I campioni, i favoriti della vigilia, un inglese Kelly, un marocchino Rhadi, nomi perduti nei gironi della sconfitta, hanno i volti di gente abituata alla zappa e all’altoforno, la loro corsa ha gli spasimi della catena di montaggio e della mietitura. Le maglie sono ruvide canottiere dove il sudore si pigia e trabonda.

Ma Abebe Bikila no
. Il vincitore di quel giorno, maglia verde dell’Etiopia, numero undici, è un’altra cosa. I corridori li ha cantati per primo Omero nell’Iliade, la velocità e la resistenza sono i doni divini di Achille. I cronisti in cerca, chissà perché di inutile colore, si inventarono che correva scalzo perché la sua federazione non aveva i soldi per comprarle, le scarpette, agli atleti. Eccola la solita Africa come la vediamo noi, miserabile, pezzente, fuori dalla Storia, animalesca. E invece le scarpette le aveva,
Bikila, ma aveva deciso di gettarle via perché ne imprigionavano la corsa libera e apparentemente senza sforzo, di pastore delle ambe e degli altopiani. I suoi piedi nudi sui selciati millenari di Roma furono il simbolo migliore dell’Africa e della sua capacità infinita di sopravvivere alla tragedia. Chissà se il suo compatriota, Siraj Gena, che vittorioso ieri a Roma si è tolto le scarpe a poche centinaia di metri dal traguardo per rendergli omaggio, sa qualcosa del miele di quella remota età dell’oro dello sport; dove non c’era il doping e gli sponsor erano ignoti. Forse no, è ben passato mezzo secolo. Ma l’Africa non ha dimenticato. Era Bikila un soldatino dell’imperatore Haile Selassie, che sembrava un eroe buono, l’uomo che aveva resistito a Mussolini e aveva perdonato gli italiani invasori. Non sapevamo ancora che era un tiranno sanguinario, subdolo e calcolatore. L’ennesimo tradimento dell’Africa, altri sono seguiti anche peggiori. Bikila con quella vittoria senza scarpe l’ha aiutata almeno quanto Adua, il terzomondismo e Mandela: gli ha insegnato che può vincere, gli ha lasciato in eredità un mito, quello dei suoi atleti invincibili e scalzi a cui gli dei dell’aria e della terra hanno risparmiato il peccato della fatica. Tutto con i suoi piedi nudi esibiti nella prima Olimpiade dell’era della televisione. Millenovecentosessanta: proprio l’anno in cui si ammainavano gli imperi.

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