La Corsa all'Oro... Nero!

Forse siamo alle porte di una nuova crisi energetica, ma questo potrebbe spalancare le porte ad una rivoluzione energetica… sapremo adeguarci ad un futuro che prevede meno sprechi?

Io corro a spegnere quella luce rimasta accesa in bagno, sperando che nel frattempo non si scatenino altri conflitti per impadronirsi del prezioso oro nero… Bye, Rex

IL MONDO SOPRAVVIVERÀ AL PETROLIO A 200 $ A BARILE? UNA CRISI COME NEGLI ANNI ’70?
‘NEWSWEEK’: "IN EUROPA, IN USA E ASIA VEDREMO FALLIRE RAPIDAMENTE MOLTE AZIENDE” - ECCO PERCHÉ GLI U.S.A. NON LASCERANNO MAI QUELLA POMPA ILLIMITATA CHIAMATA IRAQ

Rana Foroohar per “Newsweek”

L’America è a una svolta. Con il prezzo della benzina a un dollaro al litro, gli statunitensi hanno cominciato a mettere un freno allo spreco di energia: usano di più i mezzi pubblici, comprano meno veicoli di grossa cilindrata e vedono crollare le loro granitiche certezze di consumatori. Insomma, hanno modificato di colpo le loro abitudini. Questa novità potrebbe avere ripercussioni in tutto il mondo.

Gli europei, che sono più sensibili alle questioni ambientali, sono anche protetti da una valuta più forte. Quanto agli asiatici, a difenderli dall'impennata dei prezzi del petrolio ci sono i sussidi statali, che limitano i rincari per i consumatori. Ma se i prezzi continuano ad aumentare - e se la diga dei sussidi cede - la rivoluzione energetica si diffonderà a macchia d'olio. "Siamo sopravvissuti al petrolio a 80 dollari al barile, ma non significa che sopravvivremo anche al petrolio a 200 dollari al barile", osserva Daniel Yergin, autore di “The prize: the epic quest for oil, money and power”. "Se questa soglia verrà superata, le conseguenze saranno enormi".

Un anno fa nessuno immaginava che il petrolio potesse raggiungere i 200 dollari al barile. Tra il 1999 e il 2007 il prezzo del greggio è passato da 10 a 95 dollari senza rallentare la crescita economica mondiale, perché i mercati erano convinti che l'impennata fosse alimentata essenzialmente dall'aumento della domanda, in particolare cinese e indiana. Qualcuno si preoccupava della scarsità di petrolio, ma niente di paragonabile agli sconvolgimenti provocati dalla stretta imposta dall'Opec negli anni settanta.

Poi, via via che il prezzo al barile è aumentato, le previsioni sono diventate più fosche. I mercati hanno cominciato a temere non solo che la domanda a lungo termine continuasse ad aumentare, ma anche che i fattori di rischio - l'intensificarsi dei conflitti, il calo degli investimenti e le stime al ribasso delle riserve dei principali paesi produttori - non fossero destinati a sparire. Oggi molti prendono sul serio l'ipotesi che il prezzo possa raggiungere i 200 dollari al barile e che sia in arrivo una nuova crisi simile a quella degli anni settanta.

La Goldman Sachs ha avvertito che la soglia dei 200 dollari al barile potrebbe essere raggiunta in un lasso di tempo compreso tra i sei e i ventiquattro mesi. È un periodo troppo breve per stare tranquilli, perfino per chi pensa che l'aumento dei prezzi possa avere effetti positivi sul risparmio energetico e sulla lotta al riscaldamento globale.

L'impennata dei prezzi petroliferi sta già causando gravi problemi alla gente comune, minacciando la crescita economica mondiale e resuscitando lo spettro dell'inflazione. I rincari sono stati particolarmente forti in alcuni mercati emergenti come la Cina e l'India, che negli ultimi anni hanno frenato l'inflazione mondiale esportando beni e servizi a basso costo. Oggi invece questi paesi minacciano di esportare inflazione, soprattutto se spariranno i controlli sui prezzi dell'energia.

Pagare 200 dollari per un barile di petrolio nel 2009 sarebbe un colpo durissimo, e non basterebbe una "tassa verde" sulle auto di grossa cilindrata per ridurne l'impatto. Certo, lo shock costringerebbe interi paesi a diventare "verdi" molto più rapidamente di quanto stiano facendo: in particolare risparmiando energia e mettendo a punto e adottando nuovi combustibili non fossili. Ma questo non può avvenire in 24 mesi. Ecco perché le previsioni sono fosche.

Alcuni esperti prevedono un'accelerazione del trasferimento della ricchezza dai paesi consumatori ai paesi produttori di petrolio che potrebbe alterare gli equilibri mondiali, dando una mano a regimi come quelli al potere in Iran, in Venezuela o in Russia. Secondo il direttore della Morgan Stanley, Stephen Jen, con il petrolio a 200 dollari al barile il valore delle riserve petrolifere dei paesi del Golfo, esclusi Iran e Iraq, salirebbe fino a 95mila miliardi di dollari, circa il doppio del valore dei mercati azionari, il che trasformerebbe i fondi sovrani dei paesi petroliferi (che investono i proventi del greggio) nei veri padroni del mercato.

Alcuni ottimisti sono convinti che questi guadagni, se ben investiti, potrebbero far entrare il Medio Oriente nel mondo moderno. Ma tanti piccoli paesi hanno già constatato la difficoltà di investire in modo saggio i profitti provenienti dal petrolio.

La ricchezza creata dal greggio può diventare una maledizione. Come osserva Michael L. Ross, docente di scienze politiche all'università della California a Los Angeles, la percentuale di guerre in corso nei paesi produttori di petrolio è in aumento. Anche il numero dei produttori di petrolio è in aumento, e crescerà ancora. Gli ultimi arrivati sono spesso paesi piccoli e non attrezzati ad affrontare la corruzione.

Nessun settore industriale è al riparo dal petrolio alle stelle. L'aumento vertiginoso dei prezzi del combustibile ha già spinto la American Airlines ad annunciare il taglio di alcuni voli. Anche Air France-Klm prevede un calo del 30 per cento dei profitti per il 2008, e l'amministratore delegato Jean-Cyril Spinetta ha spiegato che il petrolio a 200 dollari sarebbe uno shock più grave dell'11 settembre o dell'epidemia di Sars del 2003. "E più di un semplice cambiamento: è una rivoluzione", ha dichiarato Spinetta. "In Europa, negli Stati Uniti e in Asia vedremo fallire rapidamente molte aziende. E ci sarà una ristrutturazione delle reti, un taglio delle rotte, una riduzione delle flotte aeree". Gli effetti di questi tagli sommati a quelli delle fusioni potrebbero provocare la chiusura degli aeroporti di tante città di medie dimensioni, dalla Toscana al Midwest degli Stati Uniti.

Il calo di fiducia dei consumatori americani può essere un segnale di quello che succederà in altri paesi. Negli Stati Uniti ha toccato il livello più basso degli ultimi quindici anni. Le statistiche del dipartimento dell'energia indicano che la benzina a un dollaro al litro sta costringendo gli statunitensi a usare di meno l'auto. Quest'anno si prevede che negli Usa il consumo di carburante calerà per la prima volta dal 1991. E sembra improbabile che gli incentivi fiscali possano invertire la tendenza.

TUTTI A PIEDI

Anche in Europa succederà qualcosa di simile. Già adesso gli automobilisti tedeschi vanno più piano in autostrada per risparmiare benzina: negli ultimi otto anni in Germania il prezzo del carburante è aumentato del 66 per cento. Secondo gli esperti, più gli europei spendono in benzina e meno spendono in mobili, vestiti ed elettrodomestici. Negli Stati Uniti, dove il prezzo del petrolio è aumentato del 40 per cento in due mesi, la sensazione di un'accelerazione della crisi è già palpabile. Le case automobilistiche stavano orientando la produzione verso le cilindrate più basse già prima dell'impennata del petrolio, ma ora le vendite di Suv e di pickup sono crollate.

Le scelte individuali - quale auto guidare, quanto viaggiare in aereo, se comprare un televisore più grande - s'inseriscono in un'incertezza più grande, quella causata dall'aumento dei prezzi petroliferi. Anche se mancano ancora delle previsioni ufficiali, è già evidente che il petrolio sta catalizzando i rischi inflazionistici non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli ricchi. Sembra probabile che quest'estate l'inflazione sarà al 5 per cento negli Stati Uniti e al 3 per cento in Europa. Nelle economie emergenti l'inflazione potrebbe essere a due cifre.

Un altro timore è che, poiché l'aumento dei prezzi petroliferi costringe molte economie asiatiche a ridurre o addirittura ad abolire i generosi sussidi sui carburanti, la crescita in quei paesi subirà un rallentamento notevole. E se i poveri del mondo diventano ancora più poveri, aumentano i rischi dei conflitti sociali. "Con il petrolio a 200 dollari, il costo dei trasporti aumenterà al punto da annullare la liberalizzazione degli scambi commerciali degli ultimi trent'anni", spiega Jeff Rubin, economista della Cibc world markets. Secondo Rubin il commercio mondiale si riorganizzerà a livello regionale: il Giappone potrà forse continuare a importare merci dalla Cina, e gli Stati Uniti importeranno sempre più dall'America Latina.

Ma la tendenza al regionalismo non si fermerà agli scambi commerciali: sorgeranno nuovi hub finanziari e di servizi in regioni ricche di fonti energetiche come la Russia, l'America Latina e il golfo Persico. I fondi sovrani continueranno a comprare le banche e le aziende occidentali più solide e diversificheranno i loro investimenti. E questo a sua volta renderà più forti e imprevedibili i movimenti dei mercati. Del resto, l'ascesa dei fondi sovrani ha già scatenato una reazione di tipo protezionistico: gli Stati Uniti hanno cominciato a sbarrare il passo agli investimenti stranieri nelle aziende americane.

Ma sono possibili conflitti anche più aspri. "Via via che regioni come il Medio Oriente e l'Africa, la Russia e il Sudamerica continueranno a svilupparsi, vedremo crescere la loro fame di energia e assisteremo ad atteggiamenti aggressivi e a iniziative neocolonialiste", prevede Scott Nyquist, responsabile del settore energia della McKinsey. Inoltre, più l'Iran si arricchisce più rischia di rafforzarsi anche il movimento Hezbollah, mentre è già chiaro che aumenterà il potere della Cina in Africa.

LE GUERRE DEL GREGGIO
Quasi certamente ci saranno nuovi conflitti. La ricchezza prodotta dal petrolio tende a sconvolgere l'economia e la politica dei paesi, disincentivando la diversificazione produttiva, esacerbando le rivendicazioni etniche e rendendo più facile finanziare le rivolte. Un terzo delle guerre civili in corso nel mondo si combatte in paesi produttori di petrolio (nel 1992 era un quinto). "Si crea un circolo vizioso", afferma Michael L. Ross, il politologo della Ucla, "e lo vediamo in paesi come l'Iraq e la Nigeria: i conflitti fanno aumentare i prezzi e l'aumento dei prezzi a sua volta alimenta i conflitti".

Imporre un embargo al petrolio proveniente dai paesi in guerra non servirebbe: ridurre il petrolio disponibile sul mercato non farebbe che aggravare una situazione già esplosiva. Secondo Ben Dell, analista della Sanford Bernstein, l'aumento dei prezzi petroliferi incoraggia la tendenza a rinazionalizzare i giacimenti da parte di paesi produttori come la Russia e il Venezuela, ma questo determina spesso un calo della produzione, visto che quasi tutte le aziende petrolifere di stato sono inefficienti. Per giunta, le aziende statali devono fare affari dove possono: ma poiché i giacimenti che si trovano in regioni tranquille come l’Alaska o il mare del Nord sono esauriti, la caccia a quelli nuovi si è spostata verso paesi in guerra (Nigeria, Angola) o zone con caratteristiche geologiche molto difficili, come la Siberia.

Intanto ci sono molte tecnologie verdi promettenti, ma nessuna sembra in grado di salvare la situazione a breve termine. "Le energie alternative sono un'illusione", sostiene il presidente della Pfc Energy, Robin West. "Naturalmente miglioreranno. Ma la gente non si rende conto del livello raggiunto dalle attività petrolifere. L'anno scorso, grazie agli enormi sussidi concessi agli agricoltori, sono stati prodotti 18 miliardi di litri di etanolo. Ma è l'equivalente di quello che produce una sola piattaforma petrolifera al largo delle coste dell'Africa occidentale".

Che fare, allora? Tanto per cominciare i leader politici dovrebbero smettere di chiedere alle grandi aziende petrolifere perché i prezzi sono così alti: visto che controllano solo una piccola percentuale delle riserve, non sono loro a deciderne l'andamento. Inoltre, potrebbero
incentivare iniziative verdi più efficaci, come i crediti per l'energia eolica e solare, invece dell'etanolo che è un sogno irrealistico e costoso. Infine, potrebbero smetterla di compiacere gli elettori concedendo sovvenzioni e tagli alle imposte sulla benzina. Le strade prese finora indicano chiaramente che i governi non hanno capito la nuova realtà, e cioè che il petrolio è una risorsa limitata e che la disinvoltura con cui l'abbiamo usata finora non può durare.

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Un combustibile poco caro, pulito e disponibile esiste: si chiama risparmio energetico", sintetizza Robin West. Il mondo potrebbe risparmiare il 25 per cento del petrolio adottando alcuni semplici accorgimenti come non superare mai i limiti di velocità, spegnere le luci e soprattutto sfruttare fino in fondo le tecnologie verdi già disponibili come le energie ibride o un migliore isolamento degli edifici. I paesi ricchi, in particolare gli Stati Uniti, non sono mai stati favorevoli a porre un freno ai consumi, ma con l'aumento dei prezzi dell'energia cambieranno idea. È già successo negli anni settanta e succederà ancora. E sarà questo - se siamo fortunati - l'effetto più importante e duraturo del petrolio a 200 dollari.

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