Coffee Break Perfetto

Sembra facile fare un caffè perfetto, ma cambiando bar non si è mai sicuri di trovare quello giusto, la differenza poi è evidente quando si va all'estero: la caccia ad un buon espresso si apre quando l'astinenza diventa insopportabile e quasi sempre si resta delusi. Ecco qualche regola e curiosità per il vostro... Coffee Break! Bye, Rex

L'arte di rovinare un buon caffè

Da piacere a brodaglia in pochi secondi: tutti gli errori dei barman nel rito più amato dagli italiani
I francesi lo chiamano «espressò» con l’accento sulla o, ma spesso la differenza sta soltanto nella tazza (più piccola). I tedeschi, che ne bevono già più di noi (cinque contro tre al giorno) mettono una o due zeta al posto delle esse, ma ci capiamo lo stesso. Da Amsterdam a Budapest, «espresso» è una parola passepartout come «bravo» e «pizza», e spiace che ultimamente si parli soprattutto di «guerra delle cialde», perché, come diceva Bugsy Siegel, pur essendo un gangster, il business ammazza la poesia.

In tutte le guide per stranieri in cui si racconta l’Italia (divertentissime quelle giapponesi e cinesi che cercano di dar conto, in modo maniacale di tutte le varianti del caffè: ristretto, corretto, classico, macchiato freddo, macchiato caldo) c’è sempre una mezza paginetta che indaga con serietà la radice mistica del rito. Un modo, tutto italiano, ma oggi molto esportato, per cominciare la giornata o per spezzarla, che si dilata a una mezz’oretta passata a chiacchierare, come nella canzone di Gino Paoli («Eravamo quattro amici al bar») o si riduce a cinque minuti di concentrazione assoluta prima di affrontare il traffico, un colloquio di lavoro, una resa dei conti.

Un momento sacro, quanto basta per capire la battuta di Eduardo («Quando morirò, tu portami il caffè e vedrai che io resuscito come Lazzaro»), il fanatismo quasi religioso delle discussioni sul colore e lo spessore della crema (3-5 millimetri), la torrefazione, l’aroma, e l’influenza che l’umore dei baristi può avere sulla preparazione (e ce l’ha). Per questo esiste l’Istituto Nazionale Espresso Italiano che organizza un «corso di sopravvivenza caffeicola» e dopo averlo frequentato saremo in grado di fare le pulci a qualunque barista contestandogli la tazzina sbagliata, la lunghezza sbagliata, la pressione scarsa.

Ma è curioso che uno degli esegeti più attenti all’aspetto rituale sia lo spagnolo José Vincente Quirante Rives, approdato a Napoli nel 2005 come direttore dell’Istituto Cervantes, e autore del delizioso «Elogio del caffè al bar» (Tullio Pironti editore): «Il mio amico M. mi svela tutti i segreti di un buon caffè fatto in casa. Mi segnala la macchinetta migliore, come dev’essere l’acqua… ma perché farlo in casa se a Napoli vivo circondato da baristi-artisti che mi fanno godere, ad un prezzo modico, di un’arte dal valore inestimabile?». Un vero tradizionalista, Rives.

Il caffè non si può prendere all’alba (bisogna dar tempo alle macchine di scaldarsi e lavorare due-tre ore), si manda giù dopo essersi sciacquati la bocca con un bicchiere d’acqua («rito di abluzione per accogliere qualcosa di così prezioso») in quattro sorsi, e solo allora l’inconfondibile crema esprime il suo retrogusto di nocciola o cacao. E, come nello spot Illy girato a Ragusa Ibla, in Sicilia, «senza un buon espresso, la giornata storta comincia…». Insomma, non ne possiamo fare a meno, che sia abitudine o rito propiziatorio, piccolo piacere centellinato o razionato sotto controllo medico. È il nostro quarto d’ora di paradiso (e lo sa bene la pubblicità).

Nessuna controindicazione per le aziende: una ricerca della Camera di Commercio di Milano, assolve tutti perché pare che la pausa caffè migliori la produttività. Conquistato dall’espresso anche Tarantino, che a Venezia ha rinunciato all’«americano» ma, avendo mani troppo grandi, non sapeva come tenere la minuscola tazzina senza stritolarla. Al bar chiacchierava allegramente, molto italianizzato, perché il caffè, oltre ad essere il buon inizio di qualsiasi cosa, è un luogo. Lo spiega benissimo Claudio Magris, in «Microcosmi»: «Il caffè è un’accademia platonica. In questa accademia non si insegna niente, ma si imparano la socievolezza e il disincanto. Si può chiacchierare, raccontare, ma non è possibile predicare, tenere comizi, far lezione». A patto che l’espresso sia buono, s’intende.
Fonte: LaStampa.it

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