Internet Free

I segnali sono ormai molteplici e portano dritti verso la fine del Free Web come l'abbiamo conosciuto fino ad oggi. Ci hanno fatto assaggiare il biscottino e visto che ci è piaciuto e siamo diventati dipendenti... perchè non alzare l'asticella e farci pagare per i servizi offerti? Giusto o sbagliato che sia, la strada è segnata... però noi possiamo ancora decidere quale direzione prendere! Take a look, Rex
Internet e il prezzo della libertà (Luca Ricolfi per La Stampa)
Se la proposta dovesse essere accolta dalle autorità che sovrintendono al funzionamento della rete, domani potremmo avere due Internet: Internet 1, che funzionerebbe come oggi (sulla rete fissa), e Internet 2, in cui i gestori della rete mobile potrebbero governare il traffico, ad esempio in funzione della natura dei servizi offerti e delle tariffe pagate dagli utenti. 
Di qui l’idea che l’era di Internet come l’abbiamo conosciuta fin qui - ossia libera, democratica e gratuita - stia inesorabilmente finendo, con grave danno per molti.




Da circa una settimana il mondo di Internet è in allarme. Un articolo uscito sul Washington Post, firmato dagli amministratori delegati di Google e Verizon, due colossi delle comunicazioni che insieme fatturano più di 100 miliardi di dollari, ha cautamente lanciato l’idea di mantenere il «principio di neutralità» solo sulla rete fissa (che collega fra di loro i computer via cavo telefonico) e di abbandonarlo sulla rete mobile (che collega cellulari e computer via etere, o «senza fili»). Ma che cosa significa che una rete è «neutrale»? L’interpretazione prevalente del concetto di neutralità è che tutti i pacchetti di dati vengono trasmessi al loro destinatario senza discriminazioni.

Ossia senza assegnare priorità ad alcuni di essi a scapito di altri. Né il contenuto di un pacchetto di dati né il prezzo eventualmente pagato per l’accesso alla rete sono in grado di accelerare o rallentare la trasmissione. Ora tutto ciò pare destinato a tramontare, almeno sulla rete mobile. La proposta di Google e Verizon, infatti, è di conservare intatta la neutralità sulla rete fissa, ma di sospenderla sulla rete mobile. Se la proposta dovesse essere accolta dalle autorità che sovrintendono al funzionamento della rete, domani potremmo avere due Internet: Internet 1, che funzionerebbe come oggi (sulla rete fissa), e Internet 2, in cui i gestori della rete mobile potrebbero governare il traffico, ad esempio in funzione della natura dei servizi offerti e delle tariffe pagate dagli utenti. Di qui l’idea che l’era di Internet come l’abbiamo conosciuta fin qui - ossia libera, democratica e gratuita - stia inesorabilmente finendo, con grave danno per molti.

Questa ricostruzione dei termini del problema, pur non essendo del tutto sbagliata, a mio parere è altamente fuorviante. Essa si basa su una mitizzazione di Internet come è oggi, per lo più visto come un mondo aperto, magico e buono. Eppure non è così. Già oggi, prima di ogni eventuale futuro sconvolgimento delle regole della rete, Internet non è né gratuita, né democratica, e tantomeno libera.

Internet non è gratuita per almeno due motivi fondamentali. Primo, la connessione si paga, e si paga tanto più cara quanto più si desidera velocità e affidabilità. Quindi anche ammesso che i governatori del traffico, i cosiddetti provider, non discriminino fra pacchetti (come secondo alcuni già fanno, violando la neutralità), la velocità di trasmissione/ricezione dipende già oggi dalla qualità del collegamento, quindi anche da quanto si paga. Secondo, una volta pagata la connessione, molti servizi si pagano a parte, specie se sono pregiati (provate ad accedere all’archivio di un quotidiano).

Internet non è nemmeno democratica. Di democratico c’è solo il fatto che, una volta pagato (o scroccato) il collegamento, chiunque può navigare e dire la propria senza censure. Attenzione, però, perché anche qui - senza accorgercene - paghiamo, sia pure in natura anziché in denaro. In che modo la rete ci fa pagare? Innanzitutto imponendoci la pubblicità, spesso fastidiosa e ineliminabile. Poi chiedendoci di registrarci quando cerchiamo di visitare determinati siti, il che equivale a regalare i nostri dati personali a soggetti che per lo più li venderanno o ne faranno un uso commerciale. E infine mediante la cosiddetta attivtà di profiling da parte dei motori di ricerca come Google, una sorta di schedatura di massa con cui vengono registrate tutte le nostre abitudini di navigatori: quali siti visitiamo, quali servizi acquistiamo, con quali utenti ci colleghiamo, che musica ascoltiamo, che film scarichiamo. Tutte queste informazioni, spesso raccolte a nostra insaputa e in violazione della privacy, possono essere vendute o trasmesse ai grandi apparati - multinazionali, governi, servizi segreti - senza alcun controllo da parte degli utenti che le forniscono (su questo si veda l’eccellente inchiesta di Fabio Tonacci e Marco Mensurati, uscita venerdì scorso su Repubblica).

Ma almeno possiamo dire che Internet è libera?

Nemmeno questo si può dire, secondo me. Libertà, certo, significa poter andare dove si vuole, collegarsi con chiunque, far circolare le proprie idee senza censure, accedere alla immensa massa di informazioni gratuite disseminate nella rete. Ma la «libertà di», o libertà positiva, come ci ha insegnato Isaiah Berlin, non è l’unica libertà, e forse non è neppure la più importante. Esiste anche la «libertà da», la libertà negativa. Libertà dalle molestie e dalle imposture, ad esempio. Libertà di sceglierci gli interlocutori. Libertà di non essere sistematicamente interrotti. Libertà, in una parola, di disporre del nostro tempo senza essere invasi.

Questo secondo tipo di libertà, la «libertà da», la stiamo inesorabilmente perdendo. La vita e il lavoro sono sempre più infestati, quotidianamente, ora per ora, da una selva di contatti indesiderati ma inevitabili, di notizie false ma incontrollabili, di informazioni inaccurate ma indistinguibili da quelle esatte. Perché quella che va in scena ogni giorno su Internet, come ha brillantemente spiegato Marco Niada, è una guerra permanente di tutti contro tutti per la conquista dell’attenzione (Il tempo breve, Garzanti 2010). Una guerra in cui un tempo sproporzionato viene allocato per interagire, spesso con soggetti che mai avremmo cercato autonomamente, e pochissimo tempo resta per fare, creare, pensare, riposare, stare in disparte.

Dobbiamo concluderne che Internet è un male?

Assolutamente no. I benefici restano ancora largamente superiori agli inconvenienti, specialmente agli estremi della scala sociale, ossia per la classe dirigente, per cui la connessione è arma irrinunciabile del comando, e per i soggetti più marginali, per cui la connessione è strumento di socialità e di informazione (e non solo «sfogatoio» delle frustrazioni, come amano pensare i nemici di Internet). Quello su cui forse dovremmo riflettere, semmai, è il nesso nascosto che collega «libertà di» e «libertà da». Se la nostra «libertà da» sta riducendosi pericolosamente, è anche perché la nostra «libertà di» è andata troppo avanti. Sia l’intasamento della Rete, sia l’estrema difficoltà di isolare le informazioni affidabili, sono una conseguenza, ben nota agli studiosi di signalling theory, dell’assenza di barriere all’entrata e di filtri alla circolazione: la probabilità di incorrere in contatti irrilevanti o informazioni inaccurate esplode quando i costi di produzione e contraffazione dei segnali si abbassano troppo, facendo così cadere un potentissimo meccanismo che inibisce l’emissione di segnali irrilevanti o falsi.

Vista da questa angolatura, la proposta di Google e Verizon, per quanto certamente dettata da interessi commerciali, andrebbe guardata con grande attenzione. Oggi noi tendiamo, istintivamente, a vederla solo come un attentato alla libertà di Internet, o come una cospirazione delle multinazionali contro gli inermi cittadini, ma forse sarebbe più accurato vederla anche come un primo, cauto, tentativo di mantenere intatti i benefici di Internet senza subirne gli effetti collaterali più dannosi. Insomma una riscossa della «liberta da», dopo due decenni di espansione della «libertà di».


Un futuro pieno di rischi per Internet
JUAN CARLOS DE MARTIN*

A parte gli addetti ai lavori, finora poche persone - soprattutto in Italia - hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet, ovvero la sua relazione con l’innovazione. Tutti sono testimoni - quando non beneficiari diretti - dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni. Ma relativamente pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tale esuberanza.

Ragioni che non sono legate ad un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti. La costituzione della Rete è caratterizzata, per esplicita volontà dei suoi inventori, da due aspetti essenziali: semplicità e apertura. Semplicità perché Internet, a differenza delle reti di telecomunicazione che l’hanno preceduta, è una rete «stupida», ovvero l’«intelligenza» - ciò che rende possibile i vari servizi online - è ai margini della rete stessa, nei nostri computer, non dentro la rete medesima, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile. Per introdurre un nuovo servizio, quindi, non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete (come invece occorre fare nella telefonia), basta pubblicare un software.

Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per innovare su Internet: una ragazza con una buona idea, un computer e una connessione a Internet ha tutto ciò che le serve per realizzare e poi lanciare la sua idea al mondo. Basta che il suo software parli la lingua di Internet, ovvero, il cosiddetto «Internet Protocol», liberamente e gratuitamente utilizzabile da chiunque. Inoltre, apertura perché la Rete, per il principio della cosiddetta «neutralità della rete» (o di «non discriminazione»), tratta tutti i bit (che siano un documento o un file MP3) e tutte le applicazioni (che sia posta elettronica o video streaming) allo stesso modo, indipendentemente da mittente e destinatario. In linea di principio, quindi, i bit della ragazza e quelli di una multinazionale viaggeranno in rete allo stesso modo, senza discriminazioni.

Questa rete strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione di innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati.

L’innovazione, però, è uno di quei concetti a cui tutti tributano grandi omaggi a parole, salvo poi risentirsi molto se l’innovazione altrui perturba interessi consolidati da tempo. Da questo punto di vista, da oltre un decennio registriamo il fastidio - quando non il furore - con cui settori industriali consolidati, spesso a bassissimo tasso di innovazione, hanno accolto l’innovatività dal basso, non controllabile, di Internet e dei suoi utenti.

Da un paio d’anni, però, diversi segnali suggeriscono che il confronto stia passando di livello, ovvero, non più battaglie di retroguardia da parte di attori incapaci di gestire il cambiamento, ma anche tentativi di apportare modifiche strutturali alla Rete da parte di alcuni grandi attori della Rete stessa. In particolare, da anni alcuni fornitori di servizio Internet vorrebbero essere autorizzati a far pagare un sovrapprezzo ai fornitori di contenuti o servizi (per esempio, YouTube o il sito di un quotidiano), che quindi si troverebbero a pagare più volte per gli stessi bit: una volta per accedere alla Rete tramite il fornitore A (come è normale) e poi di nuovo per raggiungere i clienti del fornitore B, quelli del fornitore C, e così via.

Lunedì, però, c’è stato un fatto oggettivamente nuovo: una delle aziende che rappresentano con maggior evidenza l’innovazione legata alla rete, Google (fondata nel 1998), ha emesso un comunicato congiunto con una delle aziende eredi dello storico monopolio telefonico americano, Verizon (fino al 2000 nota come Bell Atlantic). Comunicato reso ancora più visibile da un editoriale apparso martedì 10 agosto sul «Washington Post» a firma congiunta Eric Schmidt e Ivan Seidenberg, gli amministratori delegati delle due aziende.

In sostanza, con un documento molto conciso Google e Verizon chiedono al legislatore e al pubblico di includere in qualsiasi iniziativa normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, due punti in particolare stanno invece sollevando pesanti interrogativi e critiche. Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di «unicità» dell’accesso senza fili, nonché con la «dinamicità» di tali servizi. Se si considera che è proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, dall’accesso in mobilità da parte degli utenti alla cosiddetta «Internet delle cose», ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet.

Il secondo punto, almeno altrettanto problematico, riguarda la possibilità di offrire «servizi online aggiuntivi». In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento – servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione. Gli interrogativi che solleva un tale scenario, se confermato, sono molti, ma ci si concentri sui potenziali effetti sull’innovazione. Se oggi la barriera all’ingresso per innovare in rete è, come abbiamo descritto, bassissima, l’innovatore del futuro potrebbe invece dover affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete «premium». Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet, quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.

Google e Verizon avranno modo nelle prossime settimane di chiarire, se lo vorranno, l’effettivo significato delle parti più controverse del loro documento. Più in generale, però, è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle lungimiranti decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare con forza l’apertura di Internet anche per le prossime generazioni di innovatori.

* Docente al Politecnico di Torino

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