La Piccola Percezione della Paura




Nello sport come nella vita, la percezione del pericolo si apprende con l'età. I bambini non riescono a distinguere le situazioni e ad accorgersi dei rischi che possono investirli con certe azioni imprudenti. Vedere video come quello che posto in fondo, con un bimbo di 8 anni che controsterza sul ghiaccio fa venire i brividi, da ragazzino sono stato un incosciente a volte, ne ho combinate di tutti i colori, sugli sci, tuffandomi dagli scogli o semplicemente giocando a pallone. Ho pagato le conseguenze con fratture, punti di sutura e ghiaccio sulle botte rimediate... ma non sono mai andato in controsterzo: ora è troppo tardi, la paura non me lo consentirebbe! Bye, Rex
I caduti bambini dello sport "Non controllano l'istinto" (Stefano Semeraro per La Stampa)
Sono piccole anime senza airbag, hardware di carne tenera su cui girano software troppo potenti, craccati, selvaggi. Sono i caduti bambini dello sport sul fronte della performance.
L'ultimo è una quattordicenne della nazionale russa di snowboard, rapita da un salto troppo più grande di lei sulle nevi della Saas Fee, in Svizzera. Indossava il casco, la protezione per la colonna vertebrale. Le mancava il comando che innesca la paura. 

Come a Peter Lenz, anni 13, il più giovane morto nella storia delle gare motociclistiche, una settimana fa a Indianapolis, centrato e spezzato da un cucciolo di un anno più giovane di lui, Xavier Zayat, per una «piega» riuscita male sulla sua Honda Moriwaki 250, nel giro di riscaldamento sullo speedway che agghiaccia i grandi.

Ecco, il problema è proprio quello: la paura. L'adulto la annusa, la indossa come armatura, il fenomeno implume non sa riconoscerla, decrittarla, interpretarla. «I bambini non sono adulti in miniatura», sostiene Lyle Micheli, consigliere del CIO nella commissione medica per lo sport giovanile. «Sono creature differenti, e vanno protetti dalla società». Soprattutto protetti dai desideri fuori connessione dei grandi, spesso dei genitori, che proiettano se stessi sullo schermo perennemente acceso dello sport-business, il Mangiafuoco che ogni giorno chiede e brucia nuovi record, nuovi volti, brividi estremi.

Il teatrino della passione e della crudeltà che spara il 13enne Jordan Romero a scalare l'Everest dopo aver sconfitto a 10 il Kilimanjaro e il McKinley, la 16enne Jessica Watson a circumnavigare il globo in solitaria, subito inseguita dalla 14enne olandese Laura Dekker, che al timone ci si è messa con l'applauso del babbo e nonostante l'opposizione della mamma, ed è stata fermata solo dalle (rigide? umane?) ingiunzioni del Tribunale dei minori di Amsterdam.

Guardatevi su YouTube i video dei controsterzo di Kalle Rovanpera, anni 8, figlio di Harry, ottimo rallista finlandese: no, non sono fotomontaggi. Kalle pesta sui blocchi di legno che gli servono ad arrivare ai pedali, sorride da dietro il casco e lima curve a 100 km all'ora sul ghiaccio con molta più leggerezza di quella che un suo coetaneo impiega per smanettare il joystick della playstation. Compone al volante, come il seienne Mozart derapava sullo spartito. Ma la musica al massimo fa intenerire il cuore. Il requiem di un «baby driver» lo spezza.

Hanno talento e riflessi da adulti, a volte corpi da adulti, i bambini prodigio dello sport. Quasi mai hanno reazioni da adulti. «Non sanno controllare l'istinto, elaborare un pensiero astratto, gestire lo stress», spiega Robyn Silvermann, psicologa dell'adolescenza. Dove un 25enne o un 30enne vedrebbe la voragine loro percepiscono solo il divertimento e la vertigine. L'impossibilità della morte. Perché non hanno ancora imparato a distinguere la «morgue» dal «game over». Ehi, mamma, guarda come sono bravo.

Casey Stoner e Valentino Rossi hanno inziato a correre a cinque anni, Helio Castroneves a 14, Danica Patrick a 10, il campione della Nascar Jeff Gordon a 5 faceva a sportellate nelle mini-macchine. Lewis Hamilton è cresciuto in pista e al simulatore, e a giudicare da molte sue manovre in gara, da qualche sua bravata in strada, forse non ha mai imparato benissimo a distinguere i due livelli di realtà. Tony Nieminen a 17 anni aveva già vinto due ori olimpici nel salto dal trampolino, in cielo aveva iniziato a sospendersi da pre-adolescente, proprio come Thomas Daley, il mini-tuffatore inglese che a 13 anni si fiondava nel cratere d'acqua dalla piattaforma olimpica. La sicurezza in certi sport è pura utopia, i grandi che spediscono i baby atleti alle crociate dell'audience lo sanno benissimo. 

A Xavier Zayat, che piangeva sul corpo del baby collega, quelli di Indianapolis hanno spiegato che non deve sentire nessun rimorso: «Usa il tuo talento e vivi una vita di cui essere orgoglioso. Sii forte». Lo sport può fare male, ma sulle istruzioni del suo giocattolo da 250 cc non c'era scritto.



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